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martedì 9 agosto 2011

«Cattelan uccide l'arte», bufera sull'artista padovano

PADOVA. Maurizio Cattelan? Uccide l'arte. E così molti altri artisti contemporanei. Bufera sull'artista padovano in un saggio del critico francese Jean Clair, anticipato oggi dal Corriere della Sera. L'uscita del volume in Italia è prevista a novembre, ma in Francia il suo "L'hiver de la culture" (L'inverno della cultura) ha già fatto scalpore: è un atto d'accusa preciso contro la "degenerazione contemporanea", che traduce l'arte solo in strategie di marketing. Non ci sono più botteghe, non c'è più ricerca - secondo il critico francese - gli artisti contemporanei si comportano come nuotatori che, per non affogare, compiono esclusivamente atti disperati.

Jean Clair è già stato direttore del Musée Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia. Ma non solo: nel 1995 è stato direttore della Biennale d'arte di Venezia per il centenario. 8 agosto 2011
Dal 2008 è membro dell'Académie francaise.
Fonte

È CLAIR CHE NON CAPISCE L’ARTE (CONTEMPORANEA) – SGARBI GODE: “L’ATTACCO DI JEAN CLAIR A CATTELAN, HIRST, KOONS, MUKURAMI, CHE NON FANNO ARTE MA STUDIANO SOLO STRATEGIE DI MARKETING, DIMOSTRA CHE AVEVO RAGIONE” – CONTROCANTO DI BONAMI: “C'È QUESTO RIMPIANTO DEL RINASCIMENTO, MA È UN'ARTE CHE PER I CONTEMPORANEI ERA PIù COMPLICATA DI QUANTO SIA PER NOI QUELLA ATTUALE” – TRANCHANT BONITO OLIVA: “CLAIR HA SFIDUCIA NEL FUTURO, VEDE L'ARTE COME UNA MINACCIA”...


Paolo Conti per il "Corriere della Sera"

Un Vittorio Sgarbi inedito, insolitamente pacatissimo, quasi saggio: «Credo che tra dieci anni Jean Clair, Marc Fumaroli, lo scomparso Giovanni Testori, io stesso avremo vinto. In fondo proprio Maurizio Cattelan ha annunciato da poco che il suo ciclo si è concluso. E ho esposto questo suo addio nel mio Padiglione Italia alla Biennale di Venezia».

Il grande critico Jean Clair ha fatto centro col suo elogio della reazione contro arti-star come, appunto, Cattelan, Hirst, Koons, Mukarami, accusati di studiare solo le strategie del marketing e, così facendo, di uccidere l'arte contemporanea. Il dibattito è aperto ed è inevitabile che Sgarbi, da sempre fautore della «pittura-pittura» e seguace (contestato) del figurativo, interpreti il manifesto di Clair come un sintomo di imminente vittoria: «Clair rispecchia un recente intervento di Fumaroli e a loro aggiungerei anche il nome di Roberto Calasso».

Sgarbi non si sottrae all'invito di fare i nomi di «veri» artisti: «Marc Fumaroli, quando gli chiesi di indicare un artista per il Padiglione Italia, fece il nome di Lorenzo Cremonini, unico autore scomparso esposto a Venezia. Fu lui a teorizzare la divisione tra arte "applicata" alla sopravvivenza pubblicitaria e provocatoria, da Warhol in giù, e arte "implicata" negli aspetti più profondi, quindi Lucian Freud, Francis Bacon, e io aggiungerei Paolo Vallorz, finalmente esposto al Mart di Rovereto grazie all'intelligente passione di Gabriella Belli.

E poi Cremonini era l'oggetto, con Domenico Gnoli e Balthus, della mia prima mostra, "Arte segreta", trent'anni fa». Ma naturalmente Sgarbi è Sgarbi («mancherà poco e capiremo che l'arte contemporanea può benissimo sopravvivere senza Hirst o Koons»). Ma non tutti sono Sgarbi.

Non lo è certo Francesco Bonami, curatore della Biennale di Venezia 2003, da sempre su una sponda opposta: «Chi vuole continuare a occuparsi d'arte, a parlarne, deve accettare anche quegli aspetti della contemporaneità che non gradisce esteticamente. Perché l'arte deve restare uno strumento che ci parla del nostro mondo, quello che ci scorre davanti agli occhi». Quindi, Bonami? «Clair, per esempio, cita il video-artista Bill Viola tra i suoi preferiti.

C'è questo rimpianto diffuso del Rinascimento, lo avvertiamo tutti, è un'arte che a noi appare più semplice ma per i contemporanei era probabilmente complicata quanto lo è per noi quella attuale. Ecco, per quanto mi riguarda Viola è il peggio del peggio perché vorrebbe essere il Pontormo e purtroppo per lui non lo è». Non si pensi però che Bonami sia pronto a difendere a spada tratta tutta l'arte contemporanea: «Cattelan o Hirst hanno prodotto belle opere, che magari resteranno, e brutte opere. Ma anche ai grandi artisti del passato è capitato di sbagliare, di ripetersi, di non convincere». In quanto a Clair?

«È un grande critico che ha diretto il Musée Picasso di Parigi. Ma proprio Picasso era un artista abituato a mettersi in discussione, in crisi, a guardare avanti. Ma Clair arriva alla metà del Novecento e di fronte alla contemporaneità si blocca...».Infine Achille Bonito Oliva, teorico della Transavanguardia, curatore della Biennale di Venezia 1993: «Jean Clair non chiede più all'arte di essere una domanda sul mondo, ma piuttosto una conferma del già dato e del già vissuto. La sua è una sfiducia nel futuro, vede l'arte come una minaccia». Invece per ABO, l'acronimo con cui spesso si firma, l'arte del nostro tempo, con tutte le sue contraddizioni estetiche, «ha una funzione energetica, è un massaggio al muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva perché la nostra è una società di massa addomesticata dai media».

2- IL MANIFESTO DI JEAN CLAIR CONTRO LA «DEGENERAZIONE CONTEMPORANEA» SOTTO ACCUSA CATTELAN, HIRST, KOONS
Vincenzo Trione per il "Corriere della Sera"

Non ne potete più di Biennali invase da installazioni simili a discariche, di gallerie occupate da esercizi concettuali incomprensibili? Non ne potete più di animali in formaldeide, di sculture fumettistiche, di pontefici abbattuti da meteoriti? Provate un profondo fastidio di fronte alle mostre blockbuster e al degrado di molti musei, trasformati in supermarket?
Non vi resta che leggere gli scritti di Jean Clair, il cui ultimo pamphlet, L'hiver de la culture, è uscito in Francia da Flammarion (in Italia lo pubblicherà Skira a novembre).

Diario di sconfitte, taccuino di indignazioni, è il quarto momento di un percorso avviato nel 1989 con Critica della modernità, e proseguito nel 2004 con De Immundo e nel 2007 con La crisi dei musei. Sono i tasselli di un polittico coerente, che rivela una forte tensione etica. Paragrafi di un discorso teorico d'impronta conservatrice. «L'atteggiamento reazionario è più utile di ogni illusione di progresso», ci dice Clair.

Già direttore del Musée Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia, direttore della Biennale di Venezia del centenario (nel 1995), dal 2008 membro dell'Académie française, Clair è un raffinato intellettuale che non ha niente in comune con la maggior parte dei critici militanti di oggi, attenti soprattutto ad assecondare le mode e il gusto. Immune da questo vizio, riesce a essere saggista e polemista: si abbandona a un'affabulazione ricca di seduzioni.

Nelle sue analisi, tende a iscrivere le diffidenze sempre più diffuse nei confronti delle degenerazioni dell'arte contemporanea dentro una cornice sofisticata, densa di riferimenti storico-letterari. Da moderno-antimoderno, sceglie di interpretare le esperienze del nostro tempo senza mai aderirvi: si mette di lato, cercando di salvaguardare l'aristocrazia dello sguardo. Per comprendere il senso della sua «azione», potremmo richiamarci al Pasolini degli Scritti corsari - insofferente di fronte a ogni omologazione - e a Il tramonto dell'Occidente, monumentale affresco della nostra civiltà.

Riprendendo motivi della filosofia di Spengler, in sintonia con il Fumaroli di Paris-New York et retour, Clair parla di «hiver de la culture». Nel «nostro» inverno, la cultura non è più spazio di una religiosità laica, né strumento per «rendere il mondo abitabile», conducendo verso «una trascendenza al di là delle parole». A prevalere è una logica mercantile. Clair spiega: «Siamo stati riportati a terra, tra paesi desertificati». Dunque, addio cultura. «Resta solo il culturale: che è simulacro, imbroglio, scarto, parola di riflessi condizionati, dispersione, vaporizzazione».

Stiamo assistendo al crollo di un edificio millenario. Si pensi alla situazione in cui versano i musei. Grandi magazzini: «Depositi di civilizzazioni defunte» - ripete - dove si allineano i dipinti secondo criteri cronologici. Lì si stipano individui solitari, che trovano nel «culto dell'arte la loro ultima avventura collettiva». Vanno al Louvre o agli Uffizi come una volta ci si recava nei templi. Si spostano in gruppo: «Più la gente è sola, più va al museo». Chiassosi pellegrini postmoderni, vanno all'assalto di mostre-evento, che esercitano uno straordinario potere attrattivo.

Di fronte alle miserie del presente, scelgono di rifugiarsi nel passato, in un «miscuglio di timida e paurosa reverenza». Preferiscono un quadro a un libro, perché l'immagine possiede un'imperiosa immediatezza, che si concede «senza fatica, in una profusione di significati possibili». Andare in un museo, per loro, è solo un modo per distrarsi. Da più parti, si insegue la risposta del pubblico di massa, dimenticando che, come ripeteva Georges-Henri Rivière, «il successo di un museo non si misura dal numero dei visitatori che riceve, ma dal numero dei visitatori cui insegna qualcosa».

La medesima deriva si può ritrovare in molte sperimentazioni delle post-avanguardie, esaminate da Clair anche in un piccolo libro-intervista, Breve storia dell'arte moderna (Skira). Gli scenari attuali sono caratterizzati da due indirizzi. Da un lato, un soggettivismo narcisistico, basato sull'esibizione degli scarti del corpo. Artisti come Serrano, Orlan e Sherman fanno l'elogio della spontaneità e della violenza. Pensano l'opera come «mostruosità, rifiuto, cosa abietta, informe e senza vita».

Testimoni di un'estetica del disgusto, esaltano l'ego onnipotente. Trascrivono pulsioni irrefrenabili. Sfidano ogni morale, con un «gesto portato all'estremo limite, e finalmente alla performance». Dall'altro lato, ecco gli eredi di Duchamp: Cattelan, Hirst, Koons, Murakami, i fratelli Chapman. Sostenitori di uno stile non supportato da conoscenze tecniche, i post-dadaisti non frequentano più botteghe. Privi di mestiere, studiano solo le strategie del marketing. Si comportano come nuotatori che, per non affogare, compiono esclusivamente atti disperati. «Poveri noi, a volte, con i loro gingilli senza talento, vengono ospitati in musei prestigiosi o in siti storici come Versailles. Siamo proprio ridotti male...».

Dal dopoguerra, dice Clair, è iniziato un drammatico declino, segnato da scandali, da rivoluzioni permanenti, dalla tirannia di un «nuovo» senza origine. Siamo nella geografia del negativo. In un teatro di pantomime burlesche: un teatro «festivo e funebre, venale e mortificante», contagiato da blasfemie. L'artista del nostro tempo non è più un profeta. «Somiglia all'assassino di cui aveva scritto Thomas de Quincey: pratica la dissacrazione, la profanazione, il furore omicida».

Come uscire da questo abisso? Clair non ha dubbi. In un'epoca che tende a trasformare tutto in intrattenimento, bisogna riaffermare la grandeur; sottolineare l'importanza di quello che Robert Hughes ha definito l'«inestimabile», evitando ogni confusione tra prezzo e valore dell'opera. Ritornare alla figurazione; riscoprire sobrietà, equilibrio, sapienza. «L'arte deve darsi di nuovo, come tessuto di continuità, immobilità e silenzio; costruzione che si vede, si dà nel tempo e nel tempo si ritrova». Universo di bellezza e di purezza. Emozione, colpo al cuore.

Esperienza mistica, fondata su segrete ragioni spirituali. Artificio per dare voce - è quanto hanno fatto personalità solitarie come Lucian Freud e Zoran Music - a «temi sociali o addirittura politici», a interrogazioni assolute e drammatiche. «Senza questo dramma l'opera non vale niente, non dice niente, è irresponsabile», osserva Clair.
In L'hiver de la culture Clair oscilla tra pessimismo e nostalgia. Per un verso, descrive gli esiti di una catastrofe: i contorni di un'apocalisse.

Per un altro verso, auspica il recupero di regole classiche. Il suo è un racconto critico radicale, spietato, volto a smascherare falsi miti e fragili leggende. Un racconto che, tuttavia, tende a proporre gerarchie forse desuete tra arti maggiori e arti minori. Per Clair, infatti, esistono frontiere che non bisogna mai valicare tra la cultura alta - fatta di sculture e quadri - e la cultura pop, fatta di cartoon, graffiti, video. «La discesa dall'high culture alla low culture è una discesa agli inferi», ci dice. Un esempio: i fumetti di Art Spiegelman sul nazismo non hanno lo stesso valore dei disegni su Dachau e Buchenwald di Music, Taslitzky e Colville, i quali hanno saputo dare di quegli orrori un «equivalente plastico di incontestabile bellezza».

È davvero così? Difendere la specificità «storica» di pittura e scultura suona come un ritorno all'ordine troppo anacronistico. Impedisce di misurarsi con il paesaggio in divenire delle poetiche attuali. Lo sforzo sta non nel rifiutare «tutto» il presente, ma nel riconoscere ciò che, in esso, ha autentica forza. Inutile invocare la ripresa di categorie tradizionali. Meglio confrontarsi con artisti - come Kentridge, Viola, Kiefer o Paladino - impegnati nella riflessione sulle proprietà tecniche del linguaggio di cui, di volta in volta, si servono. Clair coglie solo le opacità del nostro tempo.

Sembra dimenticare che, anche nel cuore della notte, esistono improvvisi sprazzi di luce. Proprio nel buio, è necessario aprire gli occhi, in cerca di quelle lucciole di cui aveva parlato Pasolini sul «Corriere della Sera». Commentando quell'intervento, Georges Didi-Huberman ha ricordato, in un recente pamphlet (Contro le lucciole, Bollati Boringhieri), quanto è bello «rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono - e si amano - le lucciole».

Forse, anche nell'«inverno della cultura», ci sono significative sacche di resistenza. Non crede che sia così? «No - risponde Jean Clair - di fronte a me vedo solo un inaccettabile imbarbarimento estetico. Mi creda, non ci resta che essere reazionari».

1 commento:

  1. Dire che il prodotto di Cattelan sta all'arte come il matrimonio gay sta a quello tradizionale è troppo forte? Segni dei tempi entrambi, e gran brutti tempi. Intanto, chi critica Cattelan viene considerato "bigotto" da quel fruitore d'arte convinto di essere contemporaneo abbastanza da credere di trovare un significato nelle sue "opere". E questo a causa di tanti cosiddetti "artisti" che hanno imposto come prodotto d'arte solo creazioni cupe, mortifere o bizzarre, realizzate con più o meno (sempre meno) tecnica e abilità, comunque caratterizzate dal segno negativo, quando non ci si limita al puro divertissement che di per sé ha scarso valore artistico. Quando si parla di matrimonio gay si ripropone la stessa meccanica: la triste sterilità della coppia omosessuale viene così furbescamente proposta come stile di vita brillante e moderno, nel pieno intento di oscurare la naturalità e l'armonia con l'universo della coppia tradizionale. Ogni accenno di critica viene tacciato di bigottismo. Il problema dell'arte contemporanea non è Cattelan, il problema è la società che è condizionata, giorno per giorno, in ogni situazione, a capire, apprezzare ed accettare solo il peggio.

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"Rifiutare di avere opinioni è un modo per non averle. Non è vero?" Luigi Pirandello (1867-1936)