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martedì 25 gennaio 2011

Damien Hirst dall'odore dei soldi all'odore del sangue,tirchio e vampiro !


Non desideriamo discutere di un artista come Damien Hirst, le cui opere lasciano sovente perplessi, ma della sua avarizia. Se possiede una fortuna stimata intorno ai 215 milioni di sterline, sta ora cercando un collaboratore dalla «pennellata forte e decisa» , ben informato sulla «teoria dei colori» e con «competenze da disegnatore e da pittore» . In altre parole, un professionista. E cosa offre? Ventimila sterline l'anno. Che dire? Innanzitutto che ha il «braccino corto» .

Come Paperon de' Paperoni o l'arido e tirchio Ebenezer Scrooge prima della conversione in A Christmas Carol di Charles Dickens. Oppure come Totò nel film 47 morto che parla, tratto dall'omonima commedia di Ettore Petrolini. Gli avari si sprecano, tanto da creare un genere letterario. Se il loro patrono resta Giuda, il più geniale fu Michelangelo Buonarroti che si teneva sotto il letto un cofano pieno di monete d'oro, ché non si fidava dei banchieri. Un avaro simpatico? Alberto Sordi. Quando erano a carico suo, faceva telefonate di pochissimi secondi.

Un taccagno di qualità, invece, era il filosofo Arthur Schopenhauer, incapace di amare il prossimo, anzi ne visse sempre provando disgusto. Avara suo malgrado, costretta per risanare il bilancio di famiglia, fu la mamma di Giacomo Leopardi, quell'Adelaide Antici che accettava dai contadini solo uova grosse, tanto che aveva un cerchio per misurale e respingeva le sottodimensionate. Codesto vizio è un tema mitologico con re Mida, il quale per avidità giunse a non potersi neppure sfamare, giacché i cibi che toccava si trasformavano subito in oro.

Insomma Hirst, nonostante tutto, è in buona compagnia. Se fosse vissuto al tempo del commediografo latino Plauto rischiava di finire nell'Aulularia, magari dipinto come Euclione, taccagno che trovò una pentola colma di monete e consumava i giorni nel costante terrore che gli venisse sottratta. Sarebbe finito anche negli aspetti comici dell'opera, nella quale l'affanno ridevole della custodia del tesoro suscita continue ilarità. Forse meglio che diventare un ospite del VII canto dell'Inferno di Dante dove, sotto l'influenza del senso cristiano di tale peccato, «questi resurgeranno del sepolcro/col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi» .

Voltaire scrisse nel Dizionario filosofico che «gli uomini odiano coloro che chiamano avari solo perché non ne possono cavar nulla» , mentre Confucio nella sua saggezza lancia loro un appiglio e nei Colloqui scrive: «Il prodigo è arrogante, l'avaro è meschino. La meschinità è meglio dell'arroganza» . Se San Gregorio nei Moralia pone l'avarizia tra i vizi spirituali, giacché si consuma nel piacere e nella percezione dell'anima e non della carne, una battuta del film Arabesque (1966) proferita dal petroliere Alan Badel a Gregory Peck ricorda che sovente questo vizio diventa componente necessaria della prudenza: «Signor Pollock, i beduini hanno l'abitudine di dire agli ospiti: tutto ciò che posseggo è tuo. Io non arrivo a tanto» .

Eppure bisogna temerla, come insegna Shakespeare con Shylock nel Mercante di Venezia; o va tenuta lontano, giacché Philip Massinger ci ricordò nel Nuovo modo di pagare i vecchi debiti (la stampa è del 1632) che sovente finisce in pazzia. Ma forse il Seicento ci ha consegnato con Arpagone nell'Avare di Molière il ritratto più acuto: nell'avarizia il senso del ridicolo si unisce alla vergogna e alla coscienza del proprio difetto, anche se è rifiutato con sdegno, come se si vivesse una rivolta della vanità contro la tendenza dell'anima, custodita e difesa con gelosia.

Inoltre è possibile parlare di santa e disperata avarizia, come prova Giovanni Verga nella novella La roba o in Mastro don Gesualdo. L'urlo di Mazzarò, quando gli ricordano che è tempo di pensare alle cose celesti, «Roba mia, vientene con me!» , rappresenta il fallimento della religione dell'accumulo.
Aleksandr Sergeevic Puškin

Il lettore italiano può informarsi del problema di Damien Hirst con due saggi: di Phyllis A. Tickle (Raffaello Cortina, 2006) e di Stefano Zamagni (Il Mulino, 2009): entrambi sono intitolati Avarizia.

Tra le altre letture ci sono l'Eugénie Grandet di Balzac, ma soprattutto Il cavaliere avaro di Aleksandr Sergeevic Puškin, del 1830 (una traduzione italiana nelle Opere di Mursia). In tal caso il vizio capitale diventa contemplazione dell'infinito potere racchiuso nelle ricchezze accumulate: ma un simile vagheggiamento non si trasforma in volontà di dominio, bensì in una sorta di faustianesimo invertito, una gioia sadica nel fermare il volgere delle stagioni impedendo lo scoppio delle energie racchiuse nel denaro. Allora l'avarizia si muta in potenza metafisica. È il dramma dei ricchi non generosi. Oggi in aumento.

Armando Torno per il "Corriere della Sera"

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