La licenza di resistere ai poliziotti, di fare a botte con loro e di spedirli all’ospedale viene riconosciuta con una sentenza decisamente innovativa del tribunale di Milano: tre militanti della sinistra antagonista vengono assolti dall’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni, nonostante il processo abbia dimostrato che in effetti le botte vi furono e le lesioni anche. Ma per il giudice Lorella Trovato, della quinta sezione penale, il comportamento dei giovani estremisti è pienamente giustificato e giustificabile. Perché i poliziotti avevano cercato di portarli in questura senza motivo, e i tre non avevano altro modo di evitare l’ingiustizia se non ribellandosi. E quindi vanno assolti con formula piena: giusta causa.
Tutto accade il 9 ottobre 2007 in largo Crocetta, nel centro di Milano. La Volante intercetta tre ragazzi, uno dei quali ha appena partecipato a una rissa all’Università statale con militanti dell’ultradestra. Dalla centrale, gli agenti ricevono l’ordine di portarlo in questura. Il giovane rifiuta. Gli amici lo spalleggiano. I poliziotti insistono. Quel che accade in seguito è così raccontato dal capo di imputazione: «In concorso tra loro, al fine di opporsi agli agenti della Volante, usavano violenza nei loro confronti, e in particolare sferravano un calcio e un colpo all’altezza della spalla nei confronti del vice sovrintendente L. facendolo cadere a terra, e ingaggiavano una violenta colluttazione con l’agente O., l’ispettore S., gli agenti F., A. e C, al termine delle quale venivano tutti immobilizzati e condotti in questura». Conseguenze: dodici giorni di prognosi per l’ispettore, che riporta oltre a una serie di traumi anche la distorsione della rachide cervicale, dieci giorni di prognosi per tre dei suoi colleghi, otto per il quinto.
Assistiti dall’avvocato Mirko Mazzali, legale di fiducia dell’ultrasinistra milanese e del «Social Forum» di Genova, i tre vengono portati a processo. Uno viene condannato per la rissa con i neofascisti alla Statale. Ma tutti e tre vengono assolti dall’accusa di resistenza a pubblico ufficiale con una motivazione che merita di essere riportata con una certa ampiezza.
Il giudice inizia con lo stabilire che l’ordine di seguire i poliziotti in questura era illegittimo, perché vi sono solo due casi in cui si può costringere qualcuno ad andare in questura: è quando rifiuta di dare le proprie generalità o esibisce un documento falso, e questo non era il caso; oppure quando riceve un ordine di comparizione e non lo rispetta, e nemmeno questo era accaduto. E a quel punto prosegue: «I tre hanno resistito a un atto oggettivamente illegittimo. Anche se sicuramente gli agenti delle Volanti intervenuti in largo Crocetta non se ne sono resi conto, avendo agito a seguito di ordini ricevuti per via gerarchica e senza nemmeno conoscere il contesto in cui si inseriva il loro operato, la resistenza degli imputati è stata posta in essere a salvaguardia di un diritto costituzionalmente garantito, quello alla libertà personale, e inoltre non vi era modo di opporsi altrimenti all’operato degli agenti, poiché i fatti hanno reso evidente che il rifiuto manifestato a parole di andare in questura e l’affermazione di avere già reso note le proprie generalità e di essere disposto a ripeterle a voce non hanno sortito alcun effetto».
I tre antagonisti, insomma, hanno agito in stato di necessità davanti a un atto «illegittimo e arbitrario» della polizia. Il fatto che gli agenti delle Volanti non fossero affatto consapevoli di compiere un atto illegale, e anzi fossero convinti di fare il proprio dovere, per il giudice Trovato non cambia nulla: una conclusione diversa, scrive, «non solo è contraria ai principi costituzionali di tutela dei diritti dei singoli, ma è anche assai “pericolosa” perché potrebbe impedire al cittadino di opporsi anche ai più gravi soprusi, purché il pubblico ufficiale non si renda conto dell’arbitrarietà del suo operato».
http://www.ilgiornale.it/interni/picchiarono_poliziotti_assolti_non_e_re...
http://lombardia.indymedia.org/node/30243
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"Rifiutare di avere opinioni è un modo per non averle. Non è vero?" Luigi Pirandello (1867-1936)