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sabato 5 giugno 2010

A Gaza, dove s’impara a sopravvivere senza cibo né acqua o a Stalingrado?

 A Gaza, dove s’impara a sopravvivere senza cibo né acqua

Fonte:L'Unità.it
Nemmeno al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» in questa prigione sventrata, con le fogne a cielo aperto, con i bambini che giocano a scalare montagne di rifiuti in una gabbia ridotta ad un cumulo di macerie, isolata dal mondo. Il caldo soffocante moltiplica il bisogno di acqua. Quasi un miraggio, un bene divenuto di lusso dopo tre anni di embargo. Perché nella Striscia il 90% dei pozzi è chimicamente contaminato e l'acqua di casa non è potabile, per cui la gente è costretta a comprare acqua da privati. Neanche al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» a Gaza. Di vivere in un paesaggio lunare, fatto di crateri che si susseguono per chilometri. Tra quelle macerie, dentro quei crateri si muove una umanità sofferente che scruta il mare perché dal mare può arrivare la Speranza, sotto forma di navi della libertà, come quelle assaltate dagli uomini rana israeliani l’altra notte.
La realtà di Gaza supera ogni metafora – prigione, gabbia, inferno - utilizzata per raccontare di una striscia di terra popolata da un milione e mezzo di persone – 1.527.069 secondo l'ultimo censimento - in maggioranza (il 54%) sotto i diciotto anni. Gaza dove –secondo una recente ricerca dell'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi)- il numero delle persone che non hanno alcuna sicurezza per l'accesso al cibo e che non dispongono dei mezzi per procurarsi i beni più essenziali come il sapone o l'acqua pulita, è triplicato dall'imposizione del blocco nel giugno 2007. Gaza, dove 300mila rifugiati vivono in condizioni di povertà degradante contro 100mila all'inizio del 2007, con un tasso di disoccupazione tra i più alti al mondo: 41,8%. Gaza, dove il blocco –denuncia la Croce Rossa- «continua ad ostacolare gravemente» il trasferimento nella Striscia di attrezzature mediche essenziali, ponendo a rischio le cure immediate e le terapie a più lungo termine di migliaia di pazienti. Gaza, dove il 90% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari distribuiti dalle agenzie dell'Onu.
Per entrare all’inferno devi superare a piedi –dopo un meticoloso controllo con fantascientifiche apparecchiature elettroniche da parte israeliana- il valico di Erez. Sono trecento metri in una terra di nessuno. Lo sguardo abbraccia un orizzonte fatto di macerie. E di bambini. Che camminano tra le rovine degli oltre 4mila edifici distrutti dall’aviazione e dall’artiglieria d’Israele nei 22 giorni dell’operazione «Piombo Fuso»: di quei 4000mila edifici, solo una minima parte sono stati ricostruiti. A Gaza manca il cemento per farlo. Israele ne proibisce l'entrata per timore che serva a ricostruire le infrastrutture di Hamas. Il cemento come mille altre cose: dalla fine di gennaio ci sono restrizioni su carburante, gas per cucinare, materiali per costruire. Poi a febbraio qualcuno ha denunciato che Israele bloccava anche i datteri, le bustine da tè, i puzzle per bambini, la carta per stampare i testi scolastici e la pasta (per Israele non è considerato bene umanitario, solo il riso lo è). Ora nella lista dei materiali proibiti sono entrati anche carta igienica, sapone, spazzolini e dentifricio, marmellata, alcuni tipi di formaggio e i ceci per fare l’hummus. Mancano a Beit Hanoun, a Rafah, Khan Yunis. E ancora: Jabaliya, Bureli, Al Nusayrat, Mughazi, Dayr al Balah, fatiscenti campi profughi trasformatisi in asfissianti centri urbani. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da quel 27 dicembre 2008 (inizio dell'offensiva israeliana); 18 mesi dopo, Hamas continua a restare padrone di Gaza. Padrone di una «prigione», ma pur sempre padrone incontrastato.
L'embargo non ha indebolito il movimento islamico. Hamas è ovunque. Nelle organizzazioni «caritatevoli» che dispensano un acconto di cento dollari -un’enormità per chi (oltre 950mila persone) vive sotto la soglia di sopravvivenza– ad ogni famiglia colpita dal fuoco israeliano. Hamas presiede all'«economia dei tunnel», quella che si dipana sottoterra, nella miriade di gallerie che dalla frontiera con l'Egitto (il valico di Rafah riaperto da Mubarak dopo l'assalto alle navi della Freedom Flotilla), fanno arrivare a Gaza merce di ogni tipo. Hamas si è appropriato politicamente delle «Navi della libertà». Almeno diecimila persone hanno partecipato alle manifestazioni organizzate ieri nella Striscia dal movimento islamico contro il blocco israeliano e a sostegno della Freedom Flotilla: a sventolare, per ordine di Hamas, sono bandiere palestinesi e turche. Affianco ai ritratti di sheikh Ahmed Yassin –fondatore di Hamas ucciso dagli israeliani- compaiono quelli del «nuovo amico del popolo palestinese», il premier turco Erdogan.
Quello a Hamas è un consenso impastato di rabbia, paura, dolore. Alimentato da una rivendicazione di libertà repressa nel sangue. Per anni Ahmed Al-Jaru aveva sognato il mare, pur vivendo a poche centinaia di metri dalla distesa azzurra. Ma Ahmed e i suoi 9 bambini non potevano arrivarci perché a separarli dal mare c'erano i soldati israeliani che presidiavano uno degli undici insediamenti ebraici nella Striscia. Ora Ahmed e i suoi bambini li incontriamo al vecchio porto di Gaza City. Lui era lì la notte che la festa si è trasformata in tragedia. Era lì assieme a Faisal, Mahmud, Abdel, Zaira, e ad altre migliaia che attendevano la Freedom Flotilla. C'era anche una banda musicale per far festa... Ma a Gaza festeggiare è un sogno irrealizzabile. «Quei pacifisti sono eroi, shahid (martiri), e gli israeliani degli assassini», dice Faisal, 14 anni, il padre ucciso nella seconda Intifada. C'è chi affida il suo pensiero a Internet. È Ola, blogger di Gaza. «Per coloro che pensavano che l'era dei pirati fosse finita... o che rimanesse confinata alla fantasia dei film di Hollywood... Ripensateci. Voi, i martiri della Flotta della Libertà...Gaza voleva accogliervi come vincitori...ma il paradiso vi riceverà come martiri...Le onde del mare e i gabbiani e il tramonto piangono tutti per voi...». «Allah li accolga nel Paradiso degli shahid», le fa eco Yousef, che per sfamare la sua famiglia di undici persone ha ingrossato le fila dell'«esercito» di uomini-talpa che lavorano sottoterra al confine con l'Egitto. Un collega della Tv francese prova a dirgli: non dovete perdere la speranza. La risposta di Yousef è un pugno allo stomaco: «Non possiamo perdere una cosa che non abbiamo».
C'è animazione al porto. Si è sparsa la voce che un’altra nave di Freedom Flotilla - la «Rachel Corrie», con a bordo la Premio Nobel per la pace, l'irlandese Mairead Maguire, e il suo connazionale Denis Halliday, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite - è in avvicinamento alle coste di Gaza. «Siamo partiti per consegnare questo carico alla popolazione di Gaza e quello intendiamo fare è forzare il blocco di Gaza... Non abbiamo paura», fa sapere dalla nave, Mairead Maguire. La nave è carica di materiale da ricostruzione, 20 tonnellate di carta e molti altri prodotti che Israele rifiuta alla popolazione della Striscia. «Di navi ne dovrebbero arrivare cento al giorno per portarci via di qua», sussurra Zaira, dieci anni che tiene per mano il fratellino Yasser, tre anni. A Gaza le prime vittime sono i bambini. Bambini come Shayma, 13 anni, la cui casa è stata distrutta 18 mesi fa dai bombardamenti israeliani e ancora oggi vive con sei fratelli in una baracca di lamiere. Fredda d'inverno, torrida d'estate. «Ho smesso di fare le cose che mi piacevano, disegnare, giocare – dice Shayma -. Non mi piace neanche più guardare la televisione». Shayma ha solo tredici anni, ma il suo sguardo, la sua voce raccontano di una infanzia sfiorita nell'inferno di Gaza. «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, avevo buoni voti, adesso non lo sono per niente e ho paura che non riuscirò più a diventare dottore...». Anche Mahmud, 15 anni, ha perso la casa e ora vive in una tenda: «Non ho più sogni. Vorrei sentirmi come se avessi di nuovo una casa». Dalla prigione non si esce. Nella prigione si può solo morire. Anche se non hai alcuna colpa. Anche se hai solo sette mesi. Con le lacrime agli occhi, Yasmeen mi mostra una foto di Muhammad, il suo bambino. Due occhioni neri, un sorriso che apre il cuore. Ma il cuore di Muhammad Akram Khader non batte più. La sua morte – spiega Mu'awiya Hassanein, direttore generale dei servizi di Pronto soccorso nella Striscia - è avvenuta a causa di un rigonfiamento del cervello, che richiedeva cure disponibili solo fuori Gaza a causa dell'embargo. Muhammad è morto dopo che alla sua famiglia non è stato permesso di ricoverarlo in ospedali israeliani.
«Noi bambini diversi». Cosa sia crescere a Gaza, lo racconta Sani Yahya: un missile sparato da un F16 israeliano fece saltare per aria la festa del suo quindicesimo compleanno, uccidendo alcune delle sue sorelle e cugine. A Sany quell'attacco è costato il suo braccio sinistro: «Noi, bambini di Gaza, non siamo come gli altri –dice Sany che incontriamo a casa dei suoi nonni, alla periferia di Gaza City-. Da sempre dormiamo tutti insieme, abbracciati gli uni gli altri nello stesso letto per paura degli F16 che sorvolano di continuo le nostre case. Non parlo solo di adesso, di questa guerra. Noi siamo cresciuti così: senza luce e senz’acqua ogni volta che gli israeliani decidono di tagliarci l’energia; con l’eterna paura degli attacchi di punizione per i missili di Hamas e delle incursioni nelle nostre case. La mia scuola è stata bombardata tre volte in due anni. Non abbiamo diritto ad imparare né a sognare un futuro migliore. Nemmeno alla mia festa di compleanno avevo diritto...”. Il 31 luglio 2009, sulla spiaggia di Gaza, tremila bambini fecero volare in cielo gli aquiloni. Avevano sognato di volare con loro. Superando l'assedio, rompendo l'embargo. Volare via da quell'inferno chiamato Gaza.
articolo di: Umberto de Giovannangeli
IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI GAZA 

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